Dall’insicurezza personale nasce il “panico morale”

La sensazione di insicurezza all’interno della nostra società è divenuta una delle questioni più calde del dibattito politico contemporaneo. Salvo poche eccezioni, non c’è paese sviluppato in cui, negli ultimi anni, la questione sicurezza (solitamente associata al ruolo degli immigrati nell’allarme criminalità e terrorismo) non sia stata al centro di campagne elettorali e politiche.

Gli anni novanta potrebbero a buon diritto definirsi come il decennio dell’insicurezza. In Italia, come nel resto dell’Europa, questo sentimento è sempre più al centro di un crescente numero di riflessioni, dove abbondano gli indicatori sulle cause della sua diffusione.

La crescita di insicurezza risponde a logiche molto semplici. I sociologi affermano che nelle società contemporanee, la produzione di ricchezza va di pari passo con la produzione dei rischi. In altre parole, alla nozione di “pericolo proveniente dall’esterno”, da cui difendersi, va sostituita quella di “rischio” come esito dello stesso manifestarsi della modernità, della libertà e della ricchezza.

A tal proposito, possiamo distinguere tra: la mancanza di sicurezza esistenziale (security), legata al liberismo economico; la mancanza di sicurezza cognitiva (certainty), connessa alla crescente perdita di fiducia nei confronti del sistema politico, nel quale è sempre più difficile interpretare i sintomi e le cause; e la mancanza di sicurezza personale (safety), che riguarda l’incolumità del corpo e delle sue estensioni come i familiari e i beni personali.

Questi tre aspetti dell’insicurezza sono inevitabilmente correlati fra loro, con una tendenza degli attori sociali a riversare soprattutto sulla terza (safety) le ansie derivanti dalla prime due, proprio perché quest’ultime sono impossibili da affrontare in prima persona e sempre più limitate alle sfere di competenza politico-istituzionali.

Anche nel discorso mediatico (radio, televisioni, giornali, ecc.), il riferimento ai concetti di sicurezza e insicurezza è sempre più insistente. Normalmente associato a quello di “degrado” che comporta un più ampio significato di disordine sociale, di minaccia al decoro e al vivere civile, per la presenza sempre più pressante di categorie di persone non più gradite e tollerate.

In realtà, offesa al decoro e minaccia alla sicurezza (come nel caso degli scontri durante il G8), sono spesso visti come impliciti inviti all’intervento, consegnando all’azione della polizia una classe di comportamenti teoricamente ad essa estranea, ma che possono portare a ridefinire i confini tra legalità ed illegalità.

Questa serie di accostamenti sono facilmente rintracciabili nelle cronache quotidiane di quasi tutti i giornali e telegiornali, ma che raggiungono un particolare cinismo e livello di efficacia quando il sistema mediatico si attiva su eventi (come il crollo delle due torri) che sembrano possedere un carattere di eccezionalità. Il proporre in continuazione le stesse immagini stereotipate, portano ad assumere un carattere di “panico morale”, ovvero di ondate emotive nelle quali un grave episodio o un intero popolo viene definito come minaccia per i valori della nostra società; immagini che, alla lunga, possono creare effetti decisamente opposti come l’indifferenza sociale e l’assuefazione per eccesso di informazione.

Il panico morale che stiamo vivendo in questi giorni, costituisce un efficace teatro per la rappresentazione del legame che unisce tutto il sistema del controllo sociale, dai laeder politici ai religiosi, dalle forze dell’ordine alla gente comune. In particolare i politici vengono legittimati come rappresentanti, assieme alle istituzioni addette al controllo sociale, come “protettori”; i media come portavoce. Dobbiamo dunque sperare che i nostri protettori non si facciano prendere dai facili individualismi o colonialismi e riescano a riequilibrare la pace nel nostro generoso e fantastico mondo.

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